Marcello Motto

VIDEO

Marcello Motto, classe 1936, è un casalese purosangue ed il campione più grande della nostra Città. Motto ha ricoperto il ruolo sia di giocatore che di allenatore dal 1962 al 1969 e dal 1970 al 1972.

La carriera sportiva di Marcello Motto iniziò nel 1950, quando, 14enne, venne reclutato negli Allievi della Ciclistica Sedula di Casale. La sua struttura fisica, già molto sviluppata, specie negli arti inferiori, spinse i dirigenti della società monferrina ad indirizzarlo verso la pista e i primi test sembrarono confortare nella decisione. Tanto che Motto venne subito indicato come una grande promessa delle due ruote. Poi, pochi mesi dopo, l’incontro con Giovanni Daghino, segretario della Canottieri (e futuro presidente della Junior), che lo convinse a sostenere un provino di pallacanestro.

Motto entrò così a far parte della squadra Allievi della “Cano”, abbandonando le due ruote. Due stagioni nel vivaio dei remieri, poi a 17 anni, Motto, che aveva già raggiunto i due metri di altezza, sostenne un test per Biella, incoraggiato dai casalesi Nasatti e Cerruti, già da una stagione tesserati per il club laniero. Dal provino all’acquisizione del cartellino il passo fu breve: nel ‘53-’54, alle finali di Roma, il trio Nasatti-Cerruti-Motto fu protagonista della vittoria biellese del titolo italiano di B1 (attuale serie C), che portò in dote la promozione in A2. Gli scout delle principali società italiane iniziarono ad interessarsi al lungo casalese che correva e saltava come pochi della sua generazione. Ma anche lo staff della Nazionale ne seguiva la crescita e nella primavera del 1956 ci fu la prima convocazione azzurra: Motto, 20 anni, fu l’unico giocatore della serie cadetta in quegli anni a vestire la maglia dalla Nazionale A.

GLI ANNI A CANTU’ – In estate i grandi club fecero a gara per assicurarselo: il Simmenthal di Bogoncelli sembrò vicinissimo a chiudere, ma Motto, fin dai primi anni di attività personaggio schivo e poco propenso ai riflettori delle grandi ribalte, accettò le avances di Cantù del presidente Aldo Allievi e del coach Gianni Corsolini. In Brianza affinò la sua tecnica tanto da diventare uno dei punti di forza della Nazionale, meritando, con il suo imprevedibile gioco spalle a canestro e il ricco campionario di movimenti offensivi, altre 23 chiamate (tantissime per l’epoca, se si pensa che gli Azzurri disputavano poche gare per stagione). Nel 1960 la prima grande delusione: un infortunio lo estromise dalla squadra per le Olimpiadi di Roma. Nel ‘61-’62 ad allenarlo fu Vittorio Tracuzzi. La sua ultima stagione in maglia Oransoda Cantù lo vide giocare anche da ala grande in virtù della sua rapidità e dell’efficacia fronte a canestro. Nel marzo del 1962 Motto subì un grave infortunio ai legamenti del ginocchio, che ne mise a repentaglio il prosieguo dell’attività; i dirigenti canturini lo attesero per qualche mese, ma in estate, dopo un torneo disputato (e vinto) a Porto San Giorgio, decisero di rinunciare a lui non convinti del pieno recupero.

IL RITORNO A CASALE – Con la rinuncia di Cantù a tenere Motto, la Junior si fece avanti e allettò il campione casalese e nel giro di pochi giorni l’affare venne portato a termine, anche perché Motto era intenzionato a ritornare a casa. La sua possente struttura fisica gli consentì di ritrovare nel giro di poche settimane una condizione più che accettabile, anche se per qualche tempo giocò con un tutore al ginocchio infortunato. La stagione si rivelò più che altro utile per ritrovare confidenza con il campo. Il matrimonio con Carla, una ragazza conosciuta negli anni di Cantù, gli fornì tranquillità e stimoli giusti per dimostrare, con la maglia della Junior, di non essere un atleta finito.

Riportiamo ora quello che raccontò Marcello Motto in occasione della stesura del Libro 50+1.

Nel 1950, al cinema Vittoria, incontrai il presidente Daghino e con lui la pallacanestro. Ero già molto alto, ma amavo solo il ciclismo e non conoscevo il basket. Gli chiesi qualche spiegazione sulle regole e che cosa di preciso avrei dovuto fare: Daghino convinse in fretta me e i miei genitori, così mi trovai catapultato in un mondo tutto nuovo. La prima cosa che feci fu di comprarmi un paio di scarpe adatte: con pochi soldi in tasca, mia mamma mi portò da Panelli, un noto venditore dell’epoca, e lì, con 150 lire, una somma spropositata se rapportata ai giorni nostri, acquistai le prime scarpe da basket, numero 47. L’esordio con la Canottieri fu un disastro, ma imparai in fretta, tanto che, solo tre anni dopo, convinsi i dirigenti di Biella a tesserarmi. In parallelo al basket mi cercai un lavoro: facevo l’idraulico e alla sera, per tre volte alla settimana, mi allenavo. Le soddisfazioni sportive arrivarono presto: vincemmo il campionato regionale Allievi, poi con la prima squadra trionfammo alle Finali nazionali di B a Roma. Da lì iniziò la mia carriera vera e propria. A 19 anni passai a Cantù: ricordo una delle prime vittorie, a Gallarate, perché al termine della gara mi avvicinò un signore americano, che mi chiese quanti anni avevo e alla mia risposta iniziò ad imprecare perché nessuno, a lui che girava l’Italia per scoprire talenti, gli aveva segnalato che ce n’era uno proprio sotto casa. Scoprii soltanto qualche tempo dopo, quando mi arrivò la prima convocazione per la Nazionale giovanile, che era Jim Mc Gregor. Alla prima in azzurro, contro la Svizzera, mi nominarono subito capitano. L’esordio in Nazionale maggiore avvenne il 14 aprile 1956, a Bruxelles. C’era da poco stata la tragedia di Marcinelles, dove morirono molto minatori italiani. Prima della partita alcuni connazionali ci avvicinarono e ci chiesero di vincere per loro, perché altrimenti li avrebbero derisi a lungo sul lavoro: lo facemmo, anche se non segnai nemmeno un punto. Quello arrivò, su tiro libero, a Napoli, nella vittoria in amichevole contro la Bulgaria. Poi mi capitò anche di metterne 15 contro la Svezia. Che emozioni! I miei compagni si chiamavano Gamba, Riminucci, Costanzo. Nel ’57 giocai l’Europeo a Sofia, segnando anche 20 punti con il Belgio e 17 con l’Albania. Quello era un basket lontano anni luce dall’attuale. Al tempo ci si divertiva, si era tutti amici, ci si aiutava a vicenda. Ricordo con piacere le tavolate in compagnia dopo le gare: oggi i giocatori prendono gli integratori, noi andavamo a pane e salame o pane e gorgonzola. Anche sui soldi il discorso era diverso: quando tornai a Casale, ad esempio, mi diedero qualcosa chiedendomi se andava bene. In confronto a quanto guadagnavo a Cantù la cifra era ridicola, ma accettai di buon grado perché ho sempre pensato che i soldi si fanno lavorando e non giocando. E questo a parer mio dovrebbe valere anche oggi“.