Claudio Valentini

Claudio Valentini è un’ala piccola di origine teramane che arriva per la prima volta alla Junior nel 1967, dopo aver giocato sei stagioni in Serie A con Cantù e due anni all’Alcisa Bologna. 

La Città di Casale adotta letteralmente Valentini che vi si stabilirà con tutta la famiglia rimanendoci ancora oggi e seguendo le gesta dei due nipoti, Luca e Fabio Valentini, che hanno seguito le orme del nonno e del papà (Andrea Valentini) e sono cresciuti nelle giovanile della Novipiù Casale.

Questo il racconto tratto dal Libro 50+1 di Claudio Valentini.

Arrivai a Casale ai primi di settembre del 1967. Nell’anno precedente, all’Oransoda Cantù, facevo parte di una squadra fantastica, allenata da Boris Stankovic, poi per molti anni Commissioner della Fiba. Arrivammo terzi e in estate la dirigenza decise di sfoltire l’ampia rosa, mettendo anche me sul mercato.

Conoscevo Casale per averci giocato l’anno prima in amichevole su invito di Motto in una sera di nebbia fittissima. Andai in auto con quattro compagni e ci trovammo a girare a vuoto in Piazza Castello per più di mezz’ora senza trovare la strada per la Leardi. Arrivammo nella palestra, che divenne poi per me di casa, che la gara era già al secondo tempo. Alla fine, negli spogliatoi, la seconda sorpresa: nella doccia non c’era il classico diffusore, ma una camera d’aria di un pallone tagliata alla belle e meglio che spruzzava acqua un po’ ovunque.

Nell’estate del 1967 ero in vacanza a Tortoreto Lido, senza certezze per il futuro. Mi telefonò il presidente canturino Allievi e mi prospettò tre opportunità: Venezia, Forlì e Casale. Scartai la prima e andai a Forlì, dove conclusi in pochi minuti l’accordo per giocare in A2: ottenni anche una buona sistemazione lavorativa, un posto da insegnante di educazione fisica. A metà mattina avvertii Allievi, che mi disse di andare anche a Milano a sentire la Faema. Parlai tutto il pomeriggio con il dottor Valente che poi mi portò a cena con Merckx, Adorni e Vigna. Spiegò che a Casale avevano un progetto clamoroso e in tre anni volevano andare in Serie A. Mi convinse ed accettai la proposta, chiedendo ad Allievi di sciogliere il vincolo con Forlì. Della Junior mi colpì subito l’organizzazione: aveva una sua sede, cosa non da tutti all’epoca, dirigenti appassionati e una società ben strutturata. Purtroppo però capii presto che la gestione ordinaria della società non era allo stesso livello.

Valentini si porta dietro tanti ricordi della sua permanenza in maglia Junior: “Il 27 aprile 1968 è una data che gli appassionati casalesi ricordano ancora oggi con emozione. Quel giorno alla Leardi si consumò uno dei momenti più importanti della storia del basket cittadino. A Casale venne a giocare un’amichevole la mitica nazionale dell’Unione Sovietica, una delle squadre più forti al mondo, che era in tournèe in Italia per preparare le Olimpiadi di Città del Messico.

Come già accaduto negli anni precedenti con gli inviti ai tornei francesi, la FIP pensò a Casale. In realtà non c’era una struttura adeguata, ma ci ritenevano all’altezza per la nostra tradizione cestistica e formularono la proposta alla Società. Per l’incontro venne ampliata la capienza della Leardi, disponendo a bordo campo tre file di poltroncine provenienti dai cinema del presidente Daghino. Gli spettatori erano quasi dentro il campo e nel corso del match capitò più di una volta di vedere qualche recupero in mezzo al pubblico.
La Junior si presentò con due rinforzi provenienti dall’Ignis Varese, gli americani Sullivan, che giocò al di sotto delle attese segnando appena 13 
punti, e Hollendoc. L’Urss era una squadra da paura: quando scendemmo in campo per il salto a due mi trovai di fronte Polivoda e Andreev, due autentici armadi di oltre 2 metri e 15. E poi come dimenticare Paulaskas… Insomma iniziò il gioco, mi voltai verso la panchina e dissi che avrei marcato il più piccolo, quello coi baffi, che mi sembrava alla portata. Mi accorsi presto di quanto mi sbagliavo: il mio avversario diretto era tal Sergei Belov, uno dei più incredibili talenti che il basket russo abbia mai prodotto.

Finì 101-58, facile intuire per chi. Turra, il migliore dei nostri, chiuse con 14 punti. Quella gara non fu solo un onore per noi giocatori. Ospitare una squadra come quella sovietica dimostrava di quanta considerazione godesse ormai la Junior e la tradizione casalese a livello nazionale ed internazionale.

Purtroppo, ancora una volta il messaggio non venne recepito dai politici locali, e la città ne pagò le conseguenze negli anni a venire. Ah, se solo avessimo avuto un palazzetto vero… Chissà quali risultati avremmo raggiunto!

Parlando della Junior del 1968-69, Valentini ricorda “Non eravamo una brutta squadra e lo dimostrammo perdendo parecchie gare con margini risicati. L’errore più grande lo commise la società che volle ripetere l’esperimento già fallito anni prima di Motto allenatore-giocatoreGià nella stagione precedente era stato fatto un evidente errore di valutazione sull’allenatore: Piotti era un signore, ma non era un allenatore avendo fatto nel basket che contava sempre e solo il preparatore atletico. Non aveva grandi conoscenze e capitava spesso che, in virtù della mia esperienza in A e del suo scarno pedigree, mi chiedesse consigli prima delle trasferte. Ma parlava anche con gli altri miei compagni, quasi cercasse imbeccate sul da farsi. Chissà, probabilmente era stato scelto perché in squadra c’erano tre giocatori di Torino, e qualcuno ipotizzò che era una scelta economica per abbattere i costi con i viaggi comuni. Certo, pensando che alle spalle c’era la Faema, ci si sarebbe attesi un allenatore importante, non certo Piotti.

La dirigenza insomma ripeté l’errore con Motto, grandissimo atleta, con movimenti da manuale del basket, ma personaggio schivo e riservato. Come coach non aveva polso, finiva per non giocare mai, e poi non riusciva a tradurre le sue esperienze di giocatore, dando per scontato che quello che sapeva fare lui lo sapessero fare anche gli altri. Anche lui ha sempre confermato di non essere mai stato un tecnico.
Tutte le volte che gli chiesero di farlo non seppe mai dire di no. E guidare la squadra comportava anche la diminuzione delle sue capacità di giocatore. Non sarà mica un caso se con lui in panchina retrocedemmo due volte. Gli esempi di Piotti e Motto tradussero appieno i più evidenti limiti dell’allora dirigenza Junior: anche nel periodo Faema, non si sapevano prendere le decisioni importanti e si considerava, a torto, il ruolo dell’allenatore come secondario“.

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