Vittorio Tracuzzi

Vittorio Tracuzzi nacque a San Filippo del Mela (ME) il 2 gennaio 1923. La sua carriera da atleta iniziò nella Ginnastica Roma, dove allenava Giancarlo Primo. Lasciò la società capitolina per trasferirsi alla Pallacanestro Varese, di cui dal 1948 divenne pure il tecnico, conquistando il secondo posto in Serie A nella stagione ‘48-‘49.

Tracuzzi esordì in Nazionale il 28 aprile 1947, in occasione di Italia-Albania (60-15), prima partita degli Europei di Praga. L’anno successivo fu tra i protagonisti azzurri alle Olimpiadi di Londra. Con la Nazionale disputò nel 1949 il Trofeo Mairano, il Torneo internazionale di Nizza nel 1950 e l’Europeo di Francia nel 1951. Lasciò la maglia azzurra dopo 48 presenze, l’8 marzo 1952, al termine di Italia-Belgio.

Nel 1952, chiusa l’esperienza varesina, a soli 29 anni – un record che difficilmente verrà mai battuto – gli venne affidata la Nazionale italiana, che guidò per 28 volte, nel torneo preolimpico 1952, all’Europeo di Mosca 1953 e ad un paio di edizioni del trofeo internazionale di Istanbul.

Nella stagione 1953-54 vinse anche uno scudetto con le ragazze della Bernocchi Legnano. Nel 1954 lasciò la Nazionale e venne ingaggiato dalla Virtus Bologna, con cui nel doppio ruolo di giocatore-allenatore conquistò subito lo scudetto e fece il bis nella stagione successiva.

Nel 1956 decise di smettere con il basket giocato, rimanendo comunque al timone della Virtus con cui fu vice-campione italiano nelle quattro stagioni seguenti. Nel 1960 si trasferì a Cantù, dove incrociò il casalese Marcello Motto. Dopo due quarti posti coi brianzoli, nel 1962 tornò a Varese. Nella stagione successiva rompendo l’egemonia del Simmenthal Milano, conquistò con l’Ignis il suo terzo scudetto.

Seguirono altri cinque secondi posti e la conquista della prima edizione della Coppa delle Coppe nella stagione 1966-67. L’anno dopo fu all’Onestà Milano, poi a Cagliari, per un biennio d’alta classifica. Il nuovo approdo alla Virtus Bologna, nel 1971, si concluse con l’esonero a metà dell’anno seguente: questa la sua ultima esperienza in A.

All’inizio della primavera 1972 una delegazione della Junior gli fece visita e lo invitò a tenere uno stage tecnico per i propri tesserati. Le dolci colline del Monferrato e la proposta della Junior lo allettarono parecchio. Per due mesi filati Tracuzzi si mise con grande umiltà a disposizione della prima squadra e del settore giovanile rossoblù. In quei giorni scoccò la scintilla: a favorirla furono le delusioni maturate nelle ultime stagioni, ma pure una carriera ultratrentennale bisognosa di stimoli nuovi e un ambiente familiare che si prospettava lontano anni luce dai veleni e dagli stress del basket ad alto livello. Tracuzzi entrò subito in sintonia con i dirigenti della Junior. Senza alcun tentennamento, Tracuzzi accettò la prima offerta juniorina e si trasferì a Casale, dove prese le redini della squadra e continuò ad insegnare a scuola. La sua scelta fu ripagata da quattro stagioni di grande feeling sportivo ed umano con la Junior, i suoi dirigenti, i suoi giocatori e i suoi tifosi. Anche se non arrivarono risultati di rilievo.

Dopo la lunga parentesi a Casale, Tracuzzi allenò anche a Reggio Calabria e nella sua Messina. Chiuse la carriera con la seconda esperienza federale, questa volta alla guida della Nazionale femminile, dal 1981 al 1985.

Il palmares parla di 24 campionati da allenatore in serie A (di cui uno nel femminile), quattro scudetti (uno in rosa) e dieci secondi posti.

Tracuzzi morì a Bologna il 21 ottobre 1986 per i postumi di un incidente stradale.

Leggiamo il ricordo di Giovanni Daghino tratto dal Libro 50+1

Senza esagerare e con un pizzico d’orgoglio si può dire che l’esperienza casalese rigenerò Tracuzzi nello spirito e nella mente. Se per lui furono anni significativi, per noi monferrini appassionati della palla a spicchi furono quattro stagioni semplicemente travolgenti. Trovò a Casale amicizia, rispetto e serenità: proprio quei valori che gli erano mancati negli ultimi tempi. Insomma scoprì un ambiente ideale per far germogliare le sue idee.

A quei tempi ‘il professore’, appellativo che si è sempre appuntato sulla giacca con estrema dignità e senza alcuna presunzione, era considerato il miglior allenatore d’Europa al pari di Asa Nikolic, lo jugoslavo che contribuì a rendere mitica l’Ignis Varese. Precursore della pallacanestro professionistica, fu il primo allenatore italiano a intraprendere viaggi negli Stati Uniti all’unico scopo di aggiornarsi e crescere confrontandosi con il basket d’oltreoceano. In Monferrato portò la sua esperienza, instaurando il primo vero professionismo in una società locale: insegnò a dirigenti, allenatori e giocatori il comportamento da tenere fuori e dentro il campo. Ma dove sfoggiava il suo genio era soprattutto in palestra: trasformò ogni allenamento in un momento tecnico magico, frequentato sempre da molti allenatori, che sulle tribune della Leardi riempivano quaderni di appunti. Era un grande inventore di pallacanestro: le sue ingegnose soluzioni precorrevano con netto anticipo i tempi del gioco. Alla Junior non ottenne nulla in termini di risultati, ma d’altronde era palese che il suo scudetto albergava altrove: nell’idea che giovani giocatori crescessero respirando il suo basket.

Tutti ricordano Vittorio Tracuzzi come un uomo dalla forte personalità, che riuscì a diventare molto popolare nonostante il suo carattere schivo e poco propenso alle luci della ribalta. Oggi lo si descriverebbe come una persona non disposta a scendere a compromessi con il ‘palazzo’ e con i giochi di potere. La sua estrema integrità gli impedì forse di ottenere successi sportivi ancora maggiori; ma chi lo conobbe, che fosse tifoso, allenatore, dirigente o presidente, non può che parlarne con emozione e rispetto. E questo, probabilmente, a Tracuzzi interessava ancor di più che una Coppa dei Campioni“. 

Per Marco Giovannacci, Tracuzzi era “Unico, irripetibile, inarrivabile, amabilmente scorbutico, un grande, sia sotto il profilo tecnico sia soprattutto sotto quello umano. 

Il mio primo contatto con il “Trac” fu quasi traumatico: avevo 30 anni e la mia unica esperienza di basket era limitata a quelle poche stagioni con la Junior, ma la società mi incaricò della trattativa. Così mi ritrovai nel puzzolente spogliatoio della Leardi, faccia a faccia con un mostro sacro della pallacanestro nazionale, a proporgli di allenare Casale. Mi era stato chiesto dagli altri dirigenti di fargli eventualmente abbassare le pretese se avesse sparato forte. Tracuzzi dimostrò però di aver capito il nostro entusiasmo e le limitate possibilità economiche: insomma gli eravamo piaciuti e aveva già deciso. Nessuna società a quei livelli aveva, e forse ebbe mai, un personaggio così. La sua non fu una visita-lampo, ma una scelta di vita“. 

Questo il ricordo di Caludio Valentini.

Vittorio era un personaggio incredibile. Aveva carisma e una personalità fortissima. Era un uomo fuori dal comune e la sua storia parlava per lui. Ebbi allenatori della caratura di Stankovic, Toth e Corsolini, e in giro a quel tempo ce n’erano di incredibili, come Rubini e Nikolic. Ma Tracuzzi aveva qualcosa in più. Lo metterei al primo posto in assoluto, perché la pallacanestro la capiva e la faceva capire grazie anche all’esperienza da giocatore. E poi era un momento in cui il basket ricercava la novità, anche nella scelta dei giocatori, e questo ne favorì l’affermazione ad alto livello. Essendo così all’avanguardia e di carattere forte, tendeva ad imporre le proprie idee e spesso andava a cozzare con le società per cui lavorava. Anche perché nei rapporti non tradiva mai la sua origine siciliana.

Come tecnico l’avevo già avuto in Serie A a Cantù, lo ritrovai in C a Casale, ma non notai differenze nel suo atteggiamento. Era un po’ scorbutico, ma nonostante qualche proclama di facciata aveva grande rispetto dei giocatori da cui cercava di trarre il massimo, a volte anche con un approccio dittatoriale, talvolta terroristico. La statura professionale era tale che la sua sola presenza metteva soggezione: la fama di burbero, comunque, non oscurava il lato umano. Gli rincresceva lasciare fuori qualcuno dalla partita e non andava mai sopra le righe, se non per sdrammatizzare. Unica eccezione per Santino Farina, con cui s’instaurò un forte conflitto di personalità. Il suo modo di fare stregò anche media e tifosi: i risultati in quegli anni non arrivarono, ma nessuno osò mai criticarlo. Anche perché era riuscito ad inserirsi appieno nel tessuto sociale cittadino: a differenza di Toth, che frequentava il circolo Canottieri e l’alta società casalese, Tracuzzi amava trascorrere il tempo libero dividendosi tra il bar, dove giocava a carte con gli amici, e le officine meccaniche, dove coltivava la profonda passione per i motori“.

Infine, ecco cosa raccontò Armando Barco.

Per noi giovanissimi Tracuzzi era qualcosa di simile ad un padre. La sua severità era arcinota, ma fu sempre molto educato nei nostri confronti. Il Trac trattava tutti allo stesso modo, che si avesse 30 o 15 anni poco cambiava. Mai un insulto: certo, ogni tanto volavano urla e qualche parolaccia, ma sempre nel massimo rispetto delle persone prima che dei giocatori. Il bello è che non gli interessava solo la parte cestistica di ognuno di noi. Come insegnante, per lui contava anche l’andamento a scuola e pretendeva che chi andava meglio aiutasse quelli che non se la cavavano. Fu così anche per me: visto che a giugno ero sempre promosso – per questo mi aveva soprannominato “Einstein” – pretese che affiancassi il nuovo arrivato Giorni, uno davvero senza speranze con lo studio e che era già indietro di due anni. Provò a recuperarlo, poi visto che non c’era niente da fare, per quello e non certo per il basket, lo rispedì a casa. Per il Trac l’aspetto umano contava quasi, se non più, della tecnica. Un giorno prese me e Ronco da parte dopo un allenamento e indicando il giovanissimo Zanetti, ci disse: «Voi sapete di basket dieci volte quello che sa lui, in partita però voi vi perdete mentre lui sa poco, ma quel poco lo applica a meraviglia».

Eravamo un po’ il suo laboratorio: con noi faceva prove che in Serie A non avrebbe potuto fare, ma non ci trattò mai da cavie, anzi. Le sue soluzioni tecniche a volte funzionavano, altre no e si prendevano delle cantonate bestiali: magari si giocava quattro a zona e uno a uomo e si perdeva, o tre a zona davanti e due a uomo dietro e si mandavano in bambola gli avversari. I giornali specializzati iniziarono a parlare di ‘tracuzzate’ per definire cose fino ad allora impensabili“.