Ferdinando Prigione

Ferdinando Prigione è stato un giocatore della Junior dal 1957 al 1970. Prigione ha iniziato a giocare a pallacanestro all’Oratorio di San Domenico a Casale per poi arrivare fino alla Prima Squadra. Tutt’ora è un grande appassionato del basket e della sua Junior, tanto da essere presente in Primafila ad ogni partita dei rossoblu.

Tratto dal Libro 50+1, il racconto di Ferdinando Prigione

Per giocare si facevano ancora enormi sacrifici. Abitavo a Milano, dove avevo anche la mia attività: ogni mattina andavo a prendere il compensato a Vinovo, nella cintura di Torino, lo portavo in Brianza, lo scaricavo, lasciavo il camioncino a Milano, prendevo la 500, e via, verso Casale per l’allenamento. Una cena veloce e poi di nuovo verso Milano. La mattina dopo, alle 6, ricominciavo tutto da capo.
Le soddisfazioni del campo ripagavano comunque ogni sforzo.

Mi ero avvicinato al basket da giovanissimo: mio fratello giocava ed io lo seguivo agli allenamenti e alle partite della Canottieri di Gorla. Cominciai che facevo le elementari: ci trovavamo a giocare in Via Lanza, con qualsiasi cosa. Completamente autodidatti, pura passione, una pallacanestro si potrebbe dire da strada. Poi, iniziai a frequentare l’Oratorio di San Domenico, dove già c’era un campo e un gruppo di ex-Canottieri. Eravamo un po’ degli zingari: quando come Mario Fani andammo al concentramento di Asti, avevamo maglie con i numeri tagliati e cuciti da noi, e non tutte dello stesso colore. Ricordo con affetto la finale con la Crocetta: durante il riscaldamento i torinesi tiravano in sospensione, noi non ne avevamo mai sentito neanche parlare. Più li guardavamo e più ci tremavano le gambe. Dopo venti minuti capimmo che non erano poi così bravi e riuscimmo nell’impresa di batterli.

Iniziai ben presto ad entrare nel giro della prima squadra. Ero considerato un po’ la stella, anche per le mie doti atletiche e anche l’unico a cui la società rimborsava qualcosa, visto che venivo da Milano. 

Il bello di quegli anni è che nessuno ci insegnò mai a giocare. Imparavamo dai compagni e dagli avversari, o c’inventavamo i movimenti: ad esempio io avevo una partenza fulminante, fondo campo stessa mano-stesso piede, e con un palleggio riuscivo ad andare a tirare in rovesciata o addirittura a schiacciare. Poi noi insegnammo a quelli che vennero dopo, e fummo decisivi per la storia della Junior. Smisi quando il basket diventò troppo professionistico: la famiglia, i due figli, il lavoro, ma avevo già riavuto con gli interessi più di quanto avevo dato.

Molti dei ricordi dei miei anni da giocatore sono legati ad episodi mangerecci. Andammo in trasferta in casa dell’ItalTrieste: la gara era in programma nel pomeriggio, perché al mattino, nello stesso impianto, giocava il LLoyd, l’altra squadra locale che militava, come noi, in B. Piotti decise che dovevamo vedere anche il match del mattino e c’incamminammo alla spicciolata per raggiungere il palasport. Strada facendo Motto si ricordò di una taverna che aveva scoperto qualche anno prima quando giocava ancora a Cantù. Con Scienza e Braghero ci defilammo, di nascosto, dal resto del gruppo. Nel bar servivano il prosciutto crudo tagliato a mano e si beveva dell’ottimo Pinot grigio. Morale: arrivammo in gran ritardo al palazzetto, raccontando una balla colossale che Piotti bevve fino ad un certo punto e non prese affatto bene. Eravamo abituati a mangiate pazzesche anche prima delle partite. Durante il pranzo precedente al celeberrimo derby con la Tao Te, Motto mi disse di aver mangiato agnolotti, fritto misto, formaggi vari, il tutto condito naturalmente con una bottiglia di vino. E gli altri non erano da meno: ogni occasione era buona per fare delle gran mangiate e, perché no, bevute. Nel secondo anno Faema, gli sfottò più frequenti erano rivolti a Valentini, che aveva una mentalità da professionista puro e prima delle partite mangiava solo un piatto di riso in bianco o di prosciutto, e beveva gazzosa. Un paio di anni prima, bagnammo il successo di un torneo in Francia con una cena luculliana. Verso la fine della serata il torinese Rosa Brusin, in prestito per l’occasione, ordinò una tazza di caffè-latte. Sulla sala calò il silenzio, poi Motto si girò verso i dirigenti e disse: «Non vorrete mica comprare questo!»“.