Si scrive Harlem Globetrotters, si legge rivoluzione
La prima - di una lunga serie - di curiosità e pillole di storia sugli Harlem Globetrottera che il 27 febbraio saranno al PalaFerraris!
Gli Harlem Globetrotters sono stati e rappresentano ancora oggi molto più di una squadra di basket.
Se il gioco si è evoluto per come lo conosciamo oggi, molto del merito va sicuramente attribuito alla creatura di Abe Saperstein, al suo tempo un giovane imprenditore di Chicago (Chicago, e non New York…) che cercava il modo di sfondare e lo trovò creando una squadra di “neri” in una delle città (allora) più segregate degli Stati Uniti.
Se oggi si associa al nome dei “Globies” un grande spettacolo di intrattenimento, l’inizio della storia è caratterizzato da una voglia feroce di competere, di farsi valere, di dimostrare, di esistere e di poter essere anche i migliori.
Una volta chiamatisi (presumibilmente, perché la storia ufficiale ha qualche vuoto di sceneggiatura) Savoy Big Five, prendendo il nome dalla Savoy Ballroom che ne ospitava le partite interne, i futuri Harlem Globetrotters hanno costruito la loro reputazione giocando letteralmente contro chiunque, sfidando naturalmente anche i migliori dell’epoca pre-NBA (e preSeconda guerra Mondiale), ovvero i New York Renaissance, la prima grande “franchigia” newyorkese composta da giocatori afroamericani, squadra di cui ha recentemente parlato anche Kareem Abdul Jabbar nel suo libro “Sulle spalle dei Giganti – La Mia Harlem: Basket, Jazz, Letteratura”, appena uscito in Italia grazie ad add editore.
Non solo: anche dopo la nascita della Lega professionistica americana i Globetrotters sono stati per decenni una irrinunciabile istituzione dello sport americano, tanto da attirare (nei primi anni della NBA) ben più interesse rispetto ai “pro”.
Perché “Harlem” Globetrotters, se non erano di New York? Perché Abe Saperstein era anche un genio del marketing e una squadra newyorkese sarebbe stata molto più vendibile, inoltre quel nome diede alla squadra una forte connotazione e senso di appartenenza alla comunità nera degli Stati Uniti.
Così, a partire dal 1929 fu con questo nome che la squadra girò per tutti gli Stati Uniti (e quindi in tutto il mondo) senza eccezioni, giocando in arene enormi e in palestre fatiscenti, dormendo in macchina, sfidando le rigide convenzioni sociali e il razzismo più retrogrado, alzando continuamente l’asticella delle proprie ambizioni sportive, che erano quelle di diventare la squadra più importante del pianeta. Quello che senza dubbio i Trotters sono riusciti a fare, però, è essere degli straordinari ambasciatori del Gioco perfino negli angoli più remoti. Nessuno come loro ha portato la pallacanestro a portata di tutti, nessuno come loro ha contribuito allo sviluppo di questo sport in maniera così capillare.
Nelle prossime settimane racconteremo alcune delle “perle” della storia di questo team, come la vittoria sui Minneapolis Lakers di George Mikan, l’apparizione allo Stadio Olimpico di Berlino insieme a Jesse Owens nel 1951 (il runner afroamericano che trionfò alle Olimpiadi del Reich, nel 1936), le partite nella Russia comunista e l’esibizione davanti al Papa, la firma di Wilt Chamberlain e tanto altro ancora.
Di una cosa, però, possiamo essere certi: senza il cervello di Saperstein il basket non sarebbe la macchina da business che è diventata, senza i palleggi di Marques Haynes non avremmo probabilmente mai conosciuto i crossover di Allen Iverson, senza giocatori come Inman Jackson sarebbe stato molto più complicato abbattere la barriera del razzismo.
Insomma, senza gli Harlem Globetrotters il mondo di oggi, per come lo conosciamo, forse non esisterebbe. Di sicuro il basket non sarebbe, oggi, il “Global Game”.